L'utilitarismo (dal latino utilis, utile) รจ una dottrina filosofica di natura etica secondo la quale il bene si identifica con l'utile. Indica anche una particolare corrente fondata da Jeremy Bentham, il quale pensa che un'azione sia buona, cioรจ utile, se produce il piรน alto grado di felicitร  per il maggior numero possibile di esseri senzienti, dove per "felicitร " si intende la presenza di piacere e l'assenza di dolore.[1]

Generalitร 

David Hume, filosofo scozzese

Nel pensiero greco sono considerati utilitaristici filosofi come Protagora e, per certi versi, Epicuro, successivamente posizioni simili furono sviluppate dall'abate Galiani, da David Hume e Helvรฉtius.

L'utilitarismo trova una formulazione compiuta nel XVIII secolo a opera di Jeremy Bentham, il quale definรฌ l'utilitร  come ciรฒ che produce vantaggio e che rende minimo il dolore e massimo il piacere. Egli fa dell'etica una scienza quantificabile introducendo il concetto di algebra morale o โ€œcalcolo felicificoโ€.

Il suo pensiero fu ripreso da John Stuart Mill, che nella sua opera intitolata Utilitarismo, del 1861[2], relativizza la quantitร  di piacere al grado di raffinatezza dell'individuo.

Mantenendo l'analisi al livello individuale, un agente posto di fronte a una scelta tra N alternative sarร  portato a scegliere quella che ne massimizza la felicitร  (utilitร ).

L'analisi, perรฒ, si puรฒ estendere a livello complessivo. Nella formulazione originaria, infatti, l'utilitร  รจ una misura cardinale (o additiva) della felicitร ; essa รจ perciรฒ aggregabile mediante l'operazione di somma. รˆ quindi possibile misurare il "benessere sociale", definendolo come somma delle singole utilitร  degli individui appartenenti alla societร .

L'utilitร  diventa perciรฒ il perno del ragionamento etico, e la sua diretta applicazione รจ che diversi stati sociali (nel senso di welfare state) risultano comparabili a seconda del livello di utilitร  globale da essi generati, intesi come aggregazione del grado di utilitร  raggiunto dai singoli.

Finalitร  della giustizia รจ la massimizzazione del benessere sociale, quindi la massimizzazione della somma delle utilitร  dei singoli, secondo il noto motto benthamiano: "Il massimo della felicitร  per il massimo numero di persone e animali."

L'utilitarismo รจ quindi una teoria della giustizia secondo la quale รจ "giusto" compiere l'atto che, tra le alternative, massimizza la felicitร  complessiva, misurata tramite l'utilitร .

Non hanno rilevanza invece considerazioni riguardo alla moralitร  dell'atto, o alla doverositร , nรฉ l'etica supererogatoria. Non vi รจ alcun giudizio morale aprioristico. Si prenda ad esempio l'omicidio: questo atto puรฒ essere considerato "giusto" allorquando comporti come conseguenza uno stato sociale con maggiore utilitร  totale. Difatti potrebbe succedere che un solo individuo perda utilitร  dalla propria morte, allorchรฉ gli altri membri della comunitร  guadagnino in utilitร  dalla sua scomparsa.

Per tale ragione, si attribuisce all'utilitarismo una visione della giustizia di tipo consequenzialistico (altrimenti detto end-state oriented, o non aprioristico): la giustificazione di una scelta dipende dal risultato (in termini di utilitร -felicitร ) che comporta per gli esseri sensibili.

L'unico presupposto aprioristico dell'utilitarismo รจ l'imparzialitร : le varie utilitร  di ciascun individuo sono sommate, per formare l'utilitร  dello stato sociale, senza pesi di ponderazione; in altri termini ogni situazione contingente, ogni punto di vista ha eguale valore nella funzione di aggregazione del benessere sociale.

Avendo definito giusto ciรฒ che massimizza l'utilitร , ne deriva una visione di giustizia di tipo allocativo, dove la giustizia รจ definita come la gestione efficiente dell'utilitร  sociale.

L'utilitarismo รจ una dottrina dell'obbligo morale (perchรฉ, di fronte a diverse prospettive d'azione, impone la scelta di quella che produce piรน benessere), del valore morale (un atto ha valore morale se produce benessere), รจ prescrittiva (perchรฉ indica agli uomini quel che essi devono fare) ma puรฒ essere altresรฌ descrittiva (perchรฉ cerca di indicare le motivazioni interiori che spingono gli uomini ad agire: la ricerca del benessere o felicitร ). In chiave contemporanea, l'utilitarismo รจ in genere caratterizzato dal consequenzialismo, dal welfarismo, dall'assioma dell'ordinamento-somma (secondo il quale va massimizzata la somma totale delle utilitร  individuali dei soggetti coinvolti) e si distingue per il suo carattere universale (poichรฉ l'utilitร  massimizzata deve andare a vantaggio del maggior numero possibile di individui). Infine, l'utilitarismo รจ una dottrina monistica, in quanto indica un unico criterio (la promozione dell'utile) quale motivazione dell'azione. Uno dei precursori dell'utilitarismo, Francis Hutcheson, nell'opera An Inquiry Concerning Moral Good and Evil (1725), nel cap. III ยง 8, afferma infatti che "la migliore azione possibile รจ quella che procura la maggiore felicitร  per il maggior numero; e la peggiore quella che, similmente, genera la miseria".

Utilitarismo classico

Jeremy Bentham
John Stuart Mill

Sin dalla fine del XVIII secolo, l'utilitarismo ha avuto ampia diffusione perchรฉ ha notevolmente semplificato le modalitร  di valutazione delle azioni: infatti, nei primi utilitaristi come Jeremy Bentham (1749-1832) e John Stuart Mill (1806-1873), la valutazione morale di un atto รจ ricondotta alla sua capacitร  di produrre felicitร  o piacere, senza alcun riferimento a leggi divine o a presupposti metafisici cui esso avrebbe dovuto conformarsi. Infatti, entrambi gli autori, seppure in modi diversi, sostengono che la ricerca dell'azione piรน utile puรฒ essere oggetto di un vero e proprio calcolo matematico, poichรฉ l'utilitร  รจ una grandezza oggettiva e misurabile. Per di piรน, in questi autori l'utilitarismo, proprio per la sua agevole applicazione, diventa un principio guida della condotta anche per l'economia, il diritto e la politica.

Il principio guida dell'utilitarismo ottocentesco, definito classico, รจ l'edonismo psicologico, ossia l'idea per cui ciรฒ che va massimizzato รจ il piacere degli individui, dato che regola la condotta e la produzione di stati interiori piacevoli:

ยซLa natura ha posto il genere umano sotto il dominio di due supremi padroni: il dolore e il piacere. Spetta a essi soltanto indicare quel che dovremmo fare, come anche determinare ciรฒ che รจ giusto o ingiusto.ยป

Va aggiunto tuttavia che Mill, rispetto a Bentham, opera tre cambiamenti significativi:

  1. sostituisce alla nozione di "piacere" quella di "felicitร " (dato che il piacere sarebbe una nozione riduttiva e non in grado di restituire l'ampiezza e la varietร  dei comportamenti individuali);
  2. sostiene la distinzione qualitativa dei piaceri;
  3. fonda il principio di utilitร  sul sentimento di giustizia.

Per quel che riguarda il punto 2, va detto che per Bentham i piaceri si distinguevano in base all'intensitร , alla durata, ma non vi era a priori un piacere migliore di un altro; Mill pensa invece che

ยซriconoscere che alcuni tipi di piacere sono piรน desiderabili e hanno maggior valore di altri, รจ perfettamente conciliabile con il principio di utilitร . Sarebbe assurdo supporre che la valutazione dei piaceri debba dipendere solo dalla quantitร .ยป

Di conseguenza, coloro che sono avvezzi a sperimentare i piaceri piรน elevati sono gli individui piรน qualificati per stabilire quali piaceri possono contribuire al meglio alla promozione della felicitร  generale e all'educazione degli altri individui. Infine (punto 3), Mill, a differenza di Bentham, non รจ ottimisticamente convinto che gli individui, una volta compresi i vantaggi del principio di utilitร , lo seguirebbero fedelmente, diventando capaci di comprendere quando รจ doveroso anteporre il benessere della comunitร  al proprio piacere personale. Egli non pensa che sia sempre vero che gli individui sono al fondo ben disposti alla benevolenza. Per questo, Mill ritiene che il principio di utilitร , benchรฉ non bisognoso di dimostrazione, necessiti comunque di una fondazione, secondo lui garantita dal comune sentimento di giustizia, un sentimento in parte innato negli uomini e in parte rafforzabile attraverso l'educazione, operata dagli altri individui e dalle istituzioni della societร .

Riflessione di Sidgwick

Henry Sidgwick

L'opera The Methods of Ethics (1874) di Henry Sidgwick (1838-1900) mette in discussione l'utilitarismo classico, aprendo le porte al successivo ripensamento di questa dottrina. Sidgwick pensa infatti che l'edonismo psicologico non possa essere un principio morale in grado di prescrivere le azioni giacchรฉ si limita solo a descrivere quel che di fatto gli individui desiderano, ma non dice quel che essi devono desiderare. Sidgwick sostiene invece l'edonismo etico, il quale non fa alcuna ipotesi su cosa effettivamente gli uomini ricercano, ma afferma che รจ bene ciรฒ che รจ piacevole e male ciรฒ che non lo รจ. Si รจ detto inoltre che gli utilitaristi classici sostenevano che il principio di utilitร  fosse basato su una motivazione interiore (la ricerca della felicitร ) connaturata alla nostra indole da non avere bisogno di alcuna compiuta dimostrazione; Sidgwick invece pensa che tale dimostrazione vada operata, riconoscendo che il principio di utilitร  รจ un principio etico (e non psicologico) che indica una procedura razionale diretta a un fine intuitivamente chiaro (la felicitร  generale).

Piรน in particolare, analizzando quelli che lui ritiene i tre metodi dell'etica piรน significativi (edonismo egoistico, intuizionismo e utilitarismo o edonismo universalistico), Sidgwick sostiene che l'utilitarismo definito da Bentham e Mill non puรฒ porsi come il supremo principio morale. Infatti, a un'approfondita analisi filosofica, risulta evidente l'impossibilitร  di dimostrare che l'utilitarismo debba sempre sopravanzare l'egoismo. Quest'ultimo, se inteso come self-love (amore di sรฉ), risulta un principio morale legittimo in gran parte dei casi. Infatti, se l'egoista afferma che รจ per lui ragionevole promuovere il proprio bene, senza pretendere che tutti gli altri debbano fare la stessa cosa, egli sostiene una cosa legittima e difficilmente contestabile. L'utilitarismo invece ha una tendenza universalistica, in quanto intende stabilire che tutti dovrebbero cercare di promuovere la felicitร  generale: ed รจ piรน difficile mostrare la fondatezza di un principio morale che si voglia fare valere per tutti (la felicitร  generale), piuttosto che di un principio (la felicitร  personale) che valga per un solo individuo. D'altra parte, se permane tale contraddizione (contraddizione che nell'etica di Sidgwick sembra peraltro insanabile, v. dualismo della ragion pratica) tra egoismo e utilitarismo, l'etica si mostrerร  non pienamente razionale. Sidgwick invece vorrebbe costruire un sistema etico perfettamente coerente nei suoi principi di base: la razionalitร  di un sistema morale รจ infatti per lui sinonimo di coerenza piena tra, e con, i suoi principi di base. Per superare questa contraddizione, l'autore afferma che l'utilitarismo dovrebbe integrarsi con il terzo metodo dell'etica, ossia con l'intuizionismo, acquisendo perciรฒ i caratteri di una teoria etica fondata su principi autoevidenti, ossia veri di per sรฉ, non retti da altri principi e che non incontrano limitazioni nella propria applicazione pratica. Va detto che l'espressione "etica intuizionista" รจ genericamente impiegata da Sidgwick per indicare quelle dottrine etiche che postulano l'esistenza di principi validi a priori, e che vanno attuati incondizionatamente, senza considerare i loro effetti: un esempio di dottrina intuizionista รจ rappresentato dalla morale di senso comune.

Tuttavia secondo Sidgwick l'intuizionismo non puรฒ essere una dottrina morale: non รจ infatti possibile agire ignorando sempre le conseguenze dei propri atti e le particolari circostanze in cui ci si muove: รจ anzi moralmente doveroso valutare le caratteristiche fattuali delle situazioni nelle quali si opera e l'utilitarismo possiede questa duttilitร . Per questo, l'intuizionismo ha un valore soprattutto teorico e fondativo, non direttamente morale, in quanto รจ vero che i fini dell'azione per Sidgwick devono essere immediatamente evidenti, ma รจ l'utilitarismo, nel suo essere dottrina prescrittiva, che deve praticamente determinare quale รจ la condotta migliore per raggiungere quei fini. Ora, le virtรน (giustizia, benevolenza, dovere) che la morale di senso comune propone come principi assoluti ed evidenti e la cui realizzazione essa giudica prioritaria, non sono in realtร  effettivamente tali, perchรฉ ci sono delle circostanze nelle quali la loro piena attuazione risulta impossibile. Di contro, il principio che impone di compiere l'azione che incrementa il benessere รจ il solo realmente autoevidente, perchรฉ non incontra limiti nella propria applicazione, รจ facilmente comprensibile ed รจ duttile perchรฉ in grado di considerare le caratteristiche empiriche della circostanze in cui si agisce. Quindi, le credenze morali della morale di senso comune vanno seguite perchรฉ comunque rappresentano un patrimonio sedimentato di coscienza morale collettiva; tuttavia, solo l'utilitarismo puรฒ rendere tali credenze certe e razionali, perchรฉ la morale tradizionale le offre in forma grezza, senza giustificarle. Dunque, tali regole generali ("non mentire", "non rubare" ecc.) sono accettate anche dall'utilitarismo, ma solo se vengono fondate da un principio etico a loro superiore in validitร , realmente autoevidente, ovvero il principio che impone come fine dell'azione la produzione della maggior quantitร  di benessere complessivo:

ยซla differenza tra Senso comune e utilitarismo.โ€ฆรจ che nella visione del senso comune tali regole [le virtรน] sono regole in mezzo alle altre, mentre per l'utilitarismo la norma che impone di promuovere il bene piรน grande รจ la regola suprema e il bene piรน grande รจ interpretato come felicitร .ยป

Va detto che una critica non dissimile giungeva anche da Francis Herbert Bradley (1845-1924), esponente dell'idealismo anglosassone. Egli critica l'utilitarismo poichรฉ il fondamento della moralitร  di un atto verrebbe posto in un elemento esteriore rispetto alla coscienza dell'individuo: un atto avrebbe un valore non intrinseco, bensรฌ estrinseco, connesso alle sole conseguenze da esso prodotte, e l'approvazione da parte della coscienza diverrebbe un elemento secondario nella valutazione dell'atto, mentre l'elemento primario della valutazione sarebbe la felicitร  ottenibile dall'atto stesso.

Utilitarismo all'inizio del Novecento

La messa in evidenza da parte di Sidgwick della contraddizione costitutiva tra egoismo e utilitarismo e della necessitร  di operare un'analisi dei fondamenti della teoria morale prima di fornire indicazioni per la condotta, viene ulteriormente sviluppata da George Edward Moore (1873-1958), il quale sostiene che il filosofo morale deve soprattutto dedicarsi ad analizzare il significato dei termini morali fondamentali, come "buono". In questo senso, dato che Moore ritiene che "buono" sia una nozione morale immediatamente chiara e non definibile, egli sostiene che definire "buono" attraverso l'espressione "ciรฒ che produce piacere", alla maniera degli utilitaristi, significa compiere una fallacia naturalistica. A livello normativo, Moore critica l'utilitarismo classico che sostiene che noi abbiamo sempre per fine un piacere (o la felicitร ), perchรฉ รจ evidente che desideriamo altre cose: lo stato di piacere che puรฒ eventualmente accompagnarle non puรฒ essere il solo fine della nostra azione. Moore puรฒ essere comunque considerato un utilitarista perchรฉ vuole privilegiare quei comportamenti che conducono a un incremento del benessere della societร , solo che tali azioni non portano al piacere, ma a fini ideali quali la saggezza, la conoscenza, l'amicizia e il godimento estetico, i quali sono dotati di un valore intrinseco:

ยซle cose di maggior valore che noi possiamo conoscere o immaginare sono certi stati di coscienza che si possono approssimativamente indicare come il piacere dei rapporti umani e la fruizione di begli oggetti.ยป

Tuttavia, l'utilitarismo di Moore non sembra risolvere il problema di fondo dell'utilitarismo edonista. Per esempio, tra gli autori appartenenti all'intuizionismo etico anglosassone, William David Ross (1877-1971) mette in evidenza che l'utilitarismo ignora il carattere personale del dovere. Per l'utilitarismo, infatti, poichรฉ contano solo le conseguenze degli atti, non sembra essere importante quale sia l'identitร  della persona che agisce o di quella che subisce l'azione o il fatto che una certa persona avrebbe diritto all'azione benefica piรน di un'altra, perchรฉ ha bisogni diversi (per esempio รจ piรน povera). Inoltre, aggiunge Ross, "appare chiaro che il piacere non sia la sola cosa nella vita che noi riteniamo sia buona in se stessa"[3].

Francis Ysidro Edgeworth

L'inaugurazione delle analisi sul linguaggio morale e sullo statuto logico dei concetti etici, ovvero la metaetica, produce, nei primi decenni del Novecento, un'eclissi delle discussioni sull'etica normativa che coinvolge pure l'utilitarismo; dall'altro lato, il rinnovamento della scienza economica mette in discussione il tentativo di fondare l'economia sul solo principio di utilitร  (economia). Si รจ detto che Bentham pensava che l'utilitarismo fosse in grado di favorire una piรน equa distribuzione delle risorse tra i membri della societร , essendo possibile operare un vero e proprio calcolo delle utilitร  per determinare l'azione che conduce a un piรน elevato incremento dell'utilitร  generale. L'utilitร  era considerata una grandezza oggettiva e misurabile: tale idea, implicando l'assegnazione alle singole utilitร  di un valore numerico, definiva l'utilitร  cardinale, ossia un ordinamento non lineare delle singole utilitร , ma operato tenendo conto della diversa intensitร  attraverso cui esse vengono espresse dagli individui.

L'utilitร  cardinale viene perรฒ criticata da economisti quali Francis Ysidro Edgeworth (1845-1926) e Vilfredo Pareto (1848-1923), i quali sostengono che l'utilitร  รจ una grandezza soggettiva e psicologica e dunque niente affatto misurabile. Il solo modo per classificare le singole utilitร  sarebbe perciรฒ quello dell'utilitร  ordinale. In tal modo le singole utilitร  vengono classificate in successione una dopo l'altra, indipendentemente dalla loro intensitร , semplicemente nell'ordine con cui sono espresse dagli individui.

Queste riserve tuttavia non portano alla scomparsa dell'utilitarismo, bensรฌ alla ricerca di una sua ridefinizione. Molti utilitaristi infatti pensano che l'impianto generale di questa dottrina rimanga valido, essendo semplice e di agevole applicazione. Si tratta insomma solo di aggiornare l'utilitarismo, sia tenendo conto dei risultati cui รจ giunta la filosofia del linguaggio morale (unitamente perรฒ alla consapevolezza che la discussione sulle proprietร  logiche dei concetti morali รจ insufficiente per fondare norme valide per la condotta), sia considerando le profonde trasformazioni sociali, economiche e politiche occorse nei primi decenni del Novecento.

Nell'analisi di Amartya Sen l'utilitarismo รจ generato dall'unione di tre concetti fondamentali: consequenzialismo (giudizio in base ai risultati prodotti), welfarismo (giudizio in base alle utilitร  presenti) e classifica per somma (giudizio in base alla somma di utilitร /felicitร  presenti). L'utilitarismo, quindi, giudica in base alla somma complessiva delle utilitร  prodotte, dove il concetto di "utilitร " varia con le diverse interpretazioni dell'utilitarismo stesso.

Utilitarismo della regola

A questo proposito, l'economista britannico R. Harrod (1900-1978) nel 1936 pubblica un articolo nel quale, benchรฉ non utilizzi ancora la terminologia odierna - introdotta da R.B. Brandt in "Ethical Theory", 1959 - definisce concettualmente l'utilitarismo della regola. Harrod pensa infatti che l'utilitarismo, per sottrarsi alle critiche, debba limitarsi a stabilire quelle norme che, se seguite da tutti, garantirebbero effettivamente la produzione del massimo benessere collettivo. Non sono dunque gli atti che devono produrre benessere, bensรฌ le regole la cui osservazione, se ispirata da un'assoluta imparzialitร , conduce a stabilire l'identitร  tra la ricerca dell'interesse privato e di quello collettivo. L'utilitarismo potrebbe in tal modo assumere un carattere deontologico che ne attenua l'aspetto consequenzialistico. Infatti, sul lungo periodo, l'osservanza di regole generali consolidate (come quelle che vietano la menzogna) produce maggior benessere rispetto al compimento di atti che possono allโ€™inizio apparire piรน benefici. Per esempio, anche se in un qualche caso mentire si mostra piรน vantaggioso che dire la veritร , quando si considera un numero elevato di casi, ci si rende conto del contrario e si comprende che nessuna societร  potrebbe reggersi su una consolidata tendenza alla menzogna.

Utilitarismo dell'atto

All'utilitarismo della regola (o delle regole), si contrappone il cosiddetto utilitarismo dellโ€™atto o degli atti, definito in particolare da John Jamieson Carswell Smart (n. 1920). Secondo Smart l'utilitarismo della regola, dato che ignora il valore delle conseguenze delle nostre azioni personali, non rappresenta l'effettivo modo di agire degli individui. Sono invece gli atti individuali quelli che devono produrre benessere, perchรฉ le regole generali risultano astratte se vengono slegate dai singoli atti che le realizzano: l'utilitarismo dell'atto possiede dunque il vantaggio di avere un carattere compiutamente universalistico, tanto che, fornendo una definizione di esso, Smart scrive:

ยซl'unica ragione per fare un'azione A piuttosto che un'azione a essa alternativa B รจ che facendo A renderemo l'umanitร  (o, forse, tutti gli esseri senzienti) piรน felice di quanto l'avremmo resa nel compiere B... Ci troviamo di fronte a una tesi cosรฌ semplice e naturale che molti lettori potranno facilmente condividere. Infatti, mi rivolgo a uomini simpatetici e benevoli, cioรจ a uomini che desiderano la felicitร  del genere umano.ยป

Infine, Smart ribadisce che il valore morale degli atti dipende dalle conseguenze che essi producono.

Utilitarismo e diritti degli animali

L'utilitarismo รจ utilizzato da alcuni teorizzatori dei diritti degli animali come Peter Singer, che nel saggio Liberazione animale si oppone allo specismo, inteso come una forma di discriminazione al pari di quelle giร  note (razzismo, sessismo, etc). Ciรฒ in ragione del fatto che l'oggetto della massimizzazione della felicitร  sono gli esseri senzienti, i quali non sono rappresentati dai soli umani, ma da tutti gli esseri in grado di provare soggettivamente dolore e piacere, ovvero, stando alle conoscenze scientifiche, da tutti gli animali dotati di sistema nervoso. Rosi Braidotti vede invece negativamente l'approccio utilitarista di ciรฒ che definisce "neoumanesimo postantropocentrico", in quanto, in maniera ipocrita e universalista, estenderebbe verso gli animali i valori dell'umanesimo in un'epoca storica in cui il concetto stesso di umanitร  รจ esposto a crisi.[4]

Come giร  dichiarava Jeremy Bentham nel 1789:

ยซVerrร  il giorno in cui il resto degli esseri animali potrร  acquisire quei diritti che non gli sono mai stati negati se non dalla mano della tirannia. I francesi hanno giร  scoperto che il colore nero della pelle non รจ un motivo per cui un essere umano debba essere abbandonato senza riparazione ai capricci di un torturatore. Si potrร  un giorno giungere a riconoscere che il numero delle gambe, la villositร  della pelle, o la terminazione dell'osso sacro sono motivi egualmente insufficienti per abbandonare un essere sensibile allo stesso fato. Che altro dovrebbe tracciare la linea invalicabile? La facoltร  di ragionare o forse quella del linguaggio? Ma un cavallo o un cane adulti sono senza paragone animali piรน razionali, e piรน comunicativi, di un bambino di un giorno, o di una settimana, o persino di un mese. Ma anche ammesso che fosse altrimenti, cosa importerebbe? La domanda non รจ Possono ragionare?, nรฉ Possono parlare?, ma Possono soffrire?[5]ยป

John Stuart Mill affermรฒ al riguardo:

ยซDato per certo che una qualche pratica causa piรน dolore agli animali di quanto piacere dia agli uomini, questa pratica รจ morale o immorale? E se gli esseri umani, esattamente nella misura in cui si liberano dai vincoli dell'egoismo, non risponderanno ad una sola voce ยซimmoraleยป, che la moralitร  del principio di utilitร  sia per sempre condannata.[6]ยป

Riflessione di Hare: l'utilitarismo della preferenza

Con la riflessione di Richard Mervyn Hare (1919-2002) l'utilitarismo contemporaneo tende ad assumere piรน chiaramente i caratteri di teoria morale complessiva, dotata di un principio di fondazione metaetico e di una dottrina normativa. La necessitร  di distinguere il significato dei termini morali da quelli non morali e di evitare la fallacia naturalistica denunciata da Moore, conduce Hare a sostenere il non cognitivismo: egli รจ infatti convinto che le proposizioni dell'etica possiedano un significato peculiare, quello prescrittivo, in quanto forniscono indicazioni per la condotta e si distinguono dalle proposizioni fattuali o scientifiche, le quali invece descrivono uno stato di cose e possono essere falsificate o verificate. Le proposizioni etiche, di contro, non possono essere nรฉ vere e nรฉ false. La riflessione morale di Hare, in particolare dagli anni Settanta in poi, si indirizza verso un utilitarismo di tipo peculiare che, nelle sue intenzioni, avrebbe dovuto superare il dualismo tra utilitarismo delle regole e degli atti e dotarsi di un fondamento assoluto e formale definito prescrittivismo universale. Hare, inoltre, accettando un tratto comune a molti filosofi morali analitici, pensa che il principale compito di chi si occupa di etica, sia quello di indicare all'individuo la maniera ottimale di condurre il proprio ragionamento morale, chiarendo il significato e la funzione di termini come "buono", "giusto", "doveroso" ecc. La chiarificazione di questi ultimi consentirร  all'individuo una migliore capacitร  di prendere le proprie decisioni morali.

A questo proposito, nell'opera Il pensiero morale (1981), Hare sostiene che il nostro ragionamento etico ideale si svolge tra due livelli: quello intuitivo e quello critico. Nel primo, ci affidiamo a credenze morali immediate, derivate dagli insegnamenti familiari, dall'educazione e cosรฌ via e accettate senza alcuna riflessione; nel secondo, ci comportiamo come un individuo sempre perfettamente in grado di sapere qual รจ l'azione giusta da compiere (Hare lo definisce "arcangelo"). Ora, รจ evidente che nessuno di noi รจ cosรฌ sprovveduto da ragionare sempre a livello intuitivo - come fanno coloro che lui chiama "prolet"- nรฉ cosรฌ perfetto da ragionare sempre come un arcangelo: Hare definisce in tal modo due modelli, aggiungendo che se รจ normale (e corretto in generale) affidarsi alle credenze morali consolidate, sarebbe bene altresรฌ sviluppare una solida capacitร  critica in grado in certi casi di farci riflettere su queste stesse credenze ed eventualmente di riconsiderarle.

Peraltro, Hare nota che a livello intuitivo vige l'utilitarismo delle regole, perchรฉ gli individui hanno comunque bisogno di norme oggettive da rispettare in ogni caso ("non mentire", "non uccidere") per fidarsi delle proprie intuizioni morali. Di contro, a livello critico, l'โ€arcangeloโ€ puรฒ affidarsi all'utilitarismo degli atti, dato che egli sa sempre, all'istante, qual รจ l'azione giusta da compiere e non ha bisogno di regole assolute.

A livello normativo, l'utilitarismo deve promuovere la massimizzazione non del piacere o della semplice felicitร , bensรฌ delle preferenze razionali del soggetto, operando la somma complessiva delle utilitร  individuali (si parla in tal caso di un utilitarismo della preferenza). Hare ritiene che le preferenze da massimizzare debbano essere quelle sviluppate indipendentemente dall'identitร  del soggetto che le esprime, giacchรฉ solo in tal modo รจ garantita l'imparzialitร . Pertanto, le mie preferenze morali non devono contare di piรน perchรฉ sono mie, ma solo se sono universalizzabili e se manifestano di produrre effetti benefici maggiori di altre.

Hare inoltre sostiene che le preferenze da privilegiare non sono semplicemente quelle realmente provate dagli individui, ma quelle che essi esprimerebbero se fossero degli autentici pensatori critici, ossia se agissero idealmente sempre come arcangeli (secondo la condizione ideale di piena informazione). Infine, Hare pensa che non vada escluso a priori nessun insieme di preferenze dal novero di quelle da privilegiare, nemmeno quelle dei sadici. Infatti, le normali credenze etiche degli individui, accettate intuitivamente, unitamente a una buona tendenza a ragionare criticamente, se ben consolidate attraverso l'educazione e la pratica, rendono altamente improbabile che vengano privilegiate preferenze come quelle sadiche o malvagie, dato che appare intuitivamente chiaro che una societร  in cui prevalgono le tendenze sadiche non potrร  mai promuovere il benessere dei propri membri.

Sviluppi contemporanei

Una forma raffinata di utilitarismo della regola o norma รจ stata elaborata da R. B. Brandt (1910-1997), il quale, in contrasto con il tentativo di fondare l'utilitarismo su presupposti logico-linguistici, sostiene che l'indagine sulla morale puรฒ trarre beneficio dalla collaborazione con la psicologia. L'utilitarismo di Brandt viene definito della norma ideale perchรฉ, pur conservando un carattere consequenzialista e welfarista, cerca di connettere la valutazione morale di un atto alla rispondenza di quell'atto a regole oggettive universalmente riconosciute, impiegando un significato di "giusto" che non equivale a moralmente degno di lode, bensรฌ a dotato di valore intrinseco. Brandt rigetta l'idea di preferenza pienamente informata cosรฌ come รจ definita da Hare, sostenendo di contro che vanno privilegiati i desideri che hanno superato l'esame di una sorta di terapia psichica che ne abbia testato la plausibilitร . Brandt sottolinea infatti che l'azione si svolge in virtรน di due fattori: le conoscenze fattuali (e qui l'autore si distacca dal non cognitivismo perchรฉ, nella formazione di un giudizio morale, egli assegna un ruolo alle credenze fattuali) e un desiderio razionale (il quale "รจ razionale se e solo se non cambia anche dopo che la persona รจ stata sottoposta a una psicoterapia cognitiva", definendo come razionale una condotta "nel senso che [l'individuo] adotterebbe [quella condotta] se si trovasse in uno stato mentale normale e fosse perfettamente informato - ossia, avesse a sua disposizione e vividamente in mente tutte le rilevanti conoscenze disponibili riguardo a se stesso, il mondo e non stesse compiendo errori logici").

Brandt infatti sostiene che la giustificazione dell'utilitarismo non puรฒ fondarsi sull'analisi delle intuizioni linguistiche dei parlanti; un atto, infatti, รจ morale se razionale, ovvero se risponde a una regola che faccia parte di un codice morale ideale ampiamente accettato dai membri di una societร . Tale codice non coincide "in toto" con i vincoli legali e giuridici della societร , dato che comprende regole dettate pure dal buon senso; esso inoltre accentua il ruolo degli elementi emotivi e motivazionali nel determinare la nostra condotta (tra cui sensi di colpa verso l'azione immorale propria e altrui e la coscienza che agire correttamente aumenta la stima degli altri verso sรฉ stessi), trascurando il modo con cui noi esprimiamo linguisticamente i nostri giudizi morali. Questo insieme di regole dovrebbe consentire di risolvere le situazioni che implicano conflitti tra i diversi interessi individuali. Tale insieme di regole inoltre dovrebbe:

  • stabilire un insieme di obblighi non assoluti, ma che sarebbe bene in genere seguire (mantenere le promesse, rispettare i genitori ecc.);
  • non contenere restrizioni futili nรฉ semplici regole prudenziali (ossia che riguardano solo l'interesse dei singoli individui);
  • non avere troppe raccomandazioni per evitare confusioni;
  • non contenere richieste irrealizzabili o comunque eccessive;
  • non concedere troppa discrezione all'individuo nell'applicazione di tali norme.

Brandt aggiunge che queste regole possono essere modificate ma con ponderazione; pertanto, se un atto รจ coerente con un codice morale che contempla queste norme, esso puรฒ essere definito giusto:

ยซun atto รจ giusto se e solo se รจ conforme a un insieme di regole in grado di incrementarne il valore intrinseco; regole che si possono imparare e il cui riconoscimento risulta moralmente vincolante - quantomeno al momento in cui si compie l'atto - per tutti coloro che appartengono alla societร  alla quale appartiene chi agisce.ยป

Utilitร  e scelta razionale

Un tentativo di applicare l'utilitarismo della regola all'economia si trova nel pensiero di John Harsanyi (1920-2000), la cui riflessione si colloca all'interno della โ€œTeoria della scelta razionale collettivaโ€, tesa a determinare le condizioni che consentono agli individui di agire in condizioni ottimali per il benessere della societร : per Harsanyi solo l'utilitarismo della regola puรฒ garantire un sistema equo ed efficace. La teoria della scelta razionale postula il concetto di comportamento razionale, cosรฌ definito dall'autore:

ยซil comportamento razionale รจ un comportamento che consiste nel semplice perseguimento coerente di alcuni scopi ben definiti, e li persegue in conformitร  a qualche insieme ben definito di preferenze e prioritร .ยป

Per quel che riguarda la scelta delle preferenze da massimizzare, va detto che, a differenza di Hare, Harsanyi ritiene che alcune preferenze vadano escluse a priori dal computo delle preferenze considerate accettabili: vanno infatti lasciate da parte quelle basate su credenze false e quelle fondate su comportamenti antisociali come l'odio, l'invidia, il sadismo ecc., mentre vanno privilegiate preferenze morali. Di conseguenza, accettando la condizione di piena informazione quale vincolo necessario per la scelta razionale, Harsanyi propone l'idealizzazione del criterio di scelta delle preferenze da massimizzare:

ยซle preferenze vere di un individuo sono le preferenze che egli avrebbe se disponesse di tutta l'informazione fattuale rilevante, sempre elaborata con la maggiore cura possibile, e fosse in uno stato mentale molto favorevole alla scelta razionale.ยป

La scelta etica รจ per Harsanyi una "lotteria" perchรฉ condotta in condizioni di incertezza; infatti, secondo il postulato di equiprobabilitร , ogni individuo, per essere realmente imparziale, dovrebbe prendere le proprie decisioni immaginando di non sapere in anticipo quale posizione occuperร  nella societร  e quali esigenze svilupperร  (recependo, in questo modo, la lezione di John Rawls sul โ€velo dโ€™ignoranzaโ€), avendo la medesima probabilitร  di occupare qualunque posizione. Per esempio, se due individui esprimono una preferenza per un sistema politico A piuttosto che B, tale preferenza รจ valida se

ยซciascuno debba scegliere tra i due sistemi sulla base del presupposto che in ciascuno dei due sistemi avrebbe la medesima probabilitร  di occupare ognuna delle posizioni sociali disponibili.ยป

Harsanyi propone perciรฒ la costruzione di un modello argomentativo che ipotizza che la societร  consista di n individui (numerati come 1, 2, โ€ฆ, n), a seconda delle posizioni che essi occuperanno. I livelli di utilitร  che ognuno di questi individui puรฒ possedere nelle diverse posizioni sono indicati con i simboli U1, U2, โ€ฆ, Un (questa รจ la loro funzione di utilitร , ossia l'unitร  di misura delle preferenze personali dell'individuo). L'individuo che esprime la preferenza sarร  chiamato i, e dunque

ยซper il postulato di equiprobabilitร , l'individuo i agirร  come se assegnasse la medesima probabilitร  1/n al proprio occupare qualsiasi particolare posizione sociale e, quindi, al proprio conseguire l'utilitร  di ciascuno dei livelli di utilitร  U1, U2,โ€ฆ, Un.ยป

Inoltre, secondo Harsanyi, le singole utilitร  individuali sono misurabili aritmeticamente attribuendo a esse un valore matematico e assegnando loro una posizione su un asse cartesiano a partire da un punto zero: questa procedura consente di condurre i confronti interpersonali di utilitร  (basati sulla nostra capacitร  immaginativa e sul principio di similaritร , ossia sulla convinzione secondo la quale vi รจ una somiglianza generale tra alcuni dei nostri comportamenti sociali piรน significativi) e di rilanciare la necessitร  di un ordinamento cardinale delle utilitร , giร  presente nell'utilitarismo classico. รˆ grazie all'utilitร  cardinale che i confronti interpersonali di utilitร  riacquistano senso per la scienza economica; pertanto, ciรฒ che ha valore non รจ il fatto che certe attivitร  siano scelte, bensรฌ di quanto una sia preferita all'altra: l'ordinamento cardinale, dunque, รจ vincolante, perchรฉ la posizione di ogni utilitร  espressa non puรฒ variare a piacimento, una volta che a essa รจ stato assegnato un valore e una posizione su un asse cartesiano. Per esempio, non รจ rilevante solo sapere se un individuo preferisce che nella sua societร , nell'ordine, ci siano buoni trasposti pubblici (A), un'equa tassazione (B) e un efficace sistema sanitario (C), ma, al fine di determinare eque scelte sociali ed economiche e stabilire un ordine di prioritร  tra le preferenze, รจ fondamentale sapere con quale intensitร  egli preferisca A, B o C. In seguito, confrontando il valore delle funzioni di utilitร  espresso dai diversi individui (ovvero l'intensitร  con cui ogni individuo preferisce uno stato di cose a un altro), รจ possibile, per il decisore pubblico, attuare delle scelte in linea con l'utilitร  media (la media aritmetica di tutte le utilitร  individuali).

Critiche e obiezioni

Kant mosse la critica fondamentale alle etiche che fondano la norma morale sul desiderio della felicitร , affermando che la felicitร  ognuno se la figura a suo modo e vi tende con mezzi diversi. Negando la possibilitร  di qualsiasi metafisica, egli negรฒ il fondamento dell'etica su un fine di diritto proprio della natura umana, il quale si puรฒ dedurre soltanto da una metafisica dell'uomo.[7]

Uno dei critici contemporanei piรน incisivi รจ stato il pensatore inglese Bernard Williams (1929-2003), i cui rilievi sono la base di gran parte delle attuali critiche all'utilitarismo, al consequenzialismo e al welfarismo. Williams ha affermato che l'utilitarismo puรฒ autorizzare il compimento degli atti peggiori se viene comunque salvaguardato il benessere degli individui. Per questo le nozioni di "benessere" o di "felicitร ", lungi dall'essere semplici e chiare, appaiono problematiche e spesso estremamente vaghe. Inoltre, l'utilitarismo non contempla la possibilitร  di un conflitto tra due istanze morali: infatti, esso sa sempre cosa fare (scegliere l'istanza piรน benefica) e non si pone il problema della complessa composizione del conflitto morale ma anche della sua vitale importanza per il progresso etico della societร . Infine, Williams, accettando un rilievo che viene fatto all'utilitarismo anche dall'economista indiano Amartya Sen (n. 1933), evidenzia come l'utilitarismo tenda a ignorare l'identitร  degli individui coinvolti, le loro esigenze profonde e la loro integritร , ossia la separatezza delle persone, il fatto che tra di esse ci siano delle differenze. Infine, Williams mette in evidenza come l'utilitarismo non sia in grado di rendere conto del valore degli atti supererogatori.

Lo stesso Sen mette in evidenza come la nozione di preferenza razionale non possa essere il solo criterio per la scelta delle azioni da incentivare: infatti, ogni individuo esprime bisogni ed esigenze in modi diversi, non semplicemente preferendo una cosa a un'altra. Inoltre, l'utilitarismo rischia di essere un sistema etico e politico ingiusto: esso infatti, impiegando come unico criterio di valutazione morale la somma totale delle utilitร  individuali, privilegia sempre le preferenze degli individui piรน benestanti. Qui Sen critica soprattutto il presupposto welfarista e quello dell'ordinamento-somma.

Altre critiche sono venute dal comunitarismo, dal neo-contrattualismo, dagli intuizionisti. Implicitamente viene respinto anche dalla Dottrina Sociale Cattolica, che ravvisa nell'utilitarismo una fatale mancanza di solidarietร  e una teorizzazione dell'individualismo distruttivo dei diritti umani.

Note

  1. ^ Utilitarismo, su treccani.it.
  2. ^ Utilitarianism, London, J. Fraser, 1861.
  3. ^ Ross, 1930, p. 24
  4. ^ Rosi Braidotti, Il Postumano, Roma, Derive e Approdi, 2014.
  5. ^ Jeremy Bentham, Introduzione ai princรฌpi della morale e della legislazione, seconda edizione, 1823, capitolo 17, note
  6. ^ John Stuart Mill, cit. in Gino Ditadi, I filosofi e gli animali, vol. 2, Isonomia editrice, Este, 1994, pp. 823-824. ISBN 88-85944-12-4
  7. ^ Sofia Vanni Rovighi, Elementi di Filosofia, 3. La Natura e l'Uomo, Biblioteca [n. 6], Scholรฉ, 2022, p. 203

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