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Le tre Moire (in greco antico: Μοῖραι?, Moìrai), assimilate anche alle Parche romane e alle Norne norrene, sono figure appartenenti alla mitologia greca. Nei poemi omerici compare una sola Moira. Nella Teogonia di Esiodo compaiono due volte: come figlie della Notte e come figlie di Zeus e Temi, erano la personificazione del destino ineluttabile. Il loro compito era tessere il filo del fato di ogni uomo, svolgerlo e, infine, reciderlo segnandone la morte.
Moire è il nome dato alle figlie di Zeus e di Temi o secondo altri di Ananke[1]. L’accostamento, nel primo Inno pindarico delle Moire, di Temi e di Zeus fa pensare alla testimonianza di Pausania (Paus. 9, 12, 3-4), secondo la quale a Tebe vi erano un santuario dedicato a Temi e uno alle Moire posti accanto a quello di Zeus Agoraios che conteneva una statua del dio in pietra[2].
Nella mitologia greca arcaica «le tre Moire, le tessitrici della vita, decidevano, al momento della nascita, il destino assegnato a ogni persona. Neppure gli dei potevano modificarlo. Cloto reggeva il filo dei giorni per la tela della vita, Làchesi dispensava la sorte avvolgendo al fuso il filo che a ciascuno era assegnato e infine Atropo, l’inesorabile, che lo tagliava con le forbici quando giungeva il momento di arrestare la vita, attribuendo il principio e la fine del tempo della vita, la nascita e la morte»[3]. «Spesso nel mito le Moire sono presenti alla nascita di un dio o di un eroe, presagendone le imprese future oppure decretandone il destino»[4].
I nomi delle moire avevano un significato specifico:
La lunghezza dei fili prodotti può variare, esattamente come quella della vita degli uomini. A fili cortissimi corrisponderà una vita assai breve, come quella di un neonato, e viceversa. Si pensava ad esempio che Sofocle, uno dei più longevi autori greci (90 anni), avesse avuto in sorte un filo assai lungo.
Si tratta di tre donne dall'aspetto di vecchie che dimoravano nel regno dei morti, l'Ade.
Il sensibile distacco che si avverte da parte di queste figure e la loro totale indifferenza per la vita degli uomini accentuava e rappresentava perfettamente la mentalità fatalistica degli antichi greci.
Pindaro, in epoca più tarda, le indicò invece come le ancelle di Temi, durante il suo matrimonio con Zeus.
Esse agivano spesso contro la volontà di Zeus. Ma tutti gli dei erano tenuti all'obbedienza nei loro confronti, in quanto la loro esistenza garantiva l'ordine dell'universo, al quale anche gli dei erano soggetti.
Nonostante molti pensino che le Moire avessero un solo occhio e che se lo passassero vicendevolmente, come nel film di animazione Disney Hercules, bisogna dire che si tratta di una convinzione errata. Questa caratteristica, infatti, è propria delle Graie, come si può ben notare nel mito di Perseo, dove queste ultime vengono descritte con un solo occhio e un solo dente, dei quali fanno uso a turno. E sarà proprio questa loro debolezza che permetterà a Perseo di scoprire il nascondiglio delle Gorgoni.
«Notte poi partorì l'odioso Moros e Ker nera
e Thanatos, generò il Sonno, generò la stirpe dei Sogni;
non giacendo con alcuno li generò la dea Notte oscura;
e le Esperidi che, al di là dell'inclito Oceano, dei pomi
aurei e belli hanno cura e degli alberi che il frutto ne portano;
e le Moire e le Kere generò spietate nel dar le pene:
Cloto e Lachesi e Atropo, che ai mortali
quando son nati danno da avere il bene e il male,
che di uomini e dei i delitti perseguono;
né mai le dee cessano dalla terribile ira
prima d'aver inflitto terribile pena, a chiunque abbia peccato.»
«Per seconda sposò la splendida Thémis,
che generò le Ore (Eunomie, Dike ed Eirene fiorente)
che vegliano sulle opere dei mortali;
e le Moire, cui grande onore diede Zeús prudente:
Cloto, Lachesi e Atropo, che concedono
agli uomini il bene e il male.»
«Cotal vantaggio ha questa Tolomea,
che spesse volte l'anima ci cade
innanzi ch'Atropos mossa le dea.»
«Ma perché lei che dì e notte fila,
non gli avea tratta ancora la conocchia,
che Cloto impone a ciascuno e compila…»
Delle Moire (o Parche) parla anche Virgilio nell'Eneide, nel famoso verso: «Sic volvere Parcas» ("Così filano le Parche").
Nell'Ultimo canto di Saffo (vv. 40-44), Leopardi dice: «In che peccai bambina, allor che ignara / di misfatto è la vita, onde poi scemo / di giovanezza, e disfiorato, al fuso / dell'indomita Parca si volvesse / il ferrigno mio stame?». La Parca in questione dovrebbe essere Lachesi.[senza fonte]
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